Psiche e cori razzisti

ROBERTO CAFISO

 

Folate di razzismo negli stadi con i “buuuu!” ai calciatori di colore. Bacchettate della Fifa con sanzioni e squalifiche del campo alle società ospitanti l’incontro ed ammende a quelle i cui tifosi occupano settori dello stadio dai quali si sono levati i cori  denigratori. Calciatori offesi che abbandonano il campo o minacciano di farlo alla prima replica corale.

 

Telecamere e stampa pronti ad intercettare ogni accenno di denigrazione di un calciatore per poi riversare sull’opinione pubblica quintali di parole in articoli, trasmissioni e commenti di addetti ai lavori. Obiettivo : eliminare il razzismo dagli stadi. Ma è la strategia più efficace ? Ad oggi non pare.  Nella società che si poggia sul clamore, fascio di luce dell’identità di molti, ritrovarsi con proprio gruppo di   fanatici citati  dai telegiornali e poi commentati pur con critiche esplicite  nelle più seguite trasmissioni di calcio , vuol dire  rinforzare il comportamento che si vorrebbe stigmatizzare.

 

Chi non ha visibilità nella vita di ogni giorno e l’ottiene, pur se in negativo,  ha comunque conseguito un risultato: quello di esistere, di far parlare di sé, di  provocare, ottenendo delle risposte accorate. Un successo per personalità incompiute ed insicure, oppositive  a norme e ad ogni forma di divieto ed autorità.

 

Il calciatore di colore che si avverte offeso e rivolto alla frangia razzista mima il gesto del silenzio durante la partita, magari interrotta per dieci minuti dall’arbitro, pone  i facinorosi su un palcoscenico virtuale ,sul quale nell’immediato e per tanti giorni dopo  sui mass media, avranno la ribalta. Critiche e  fischi di disapprovazione  esaltano il narcisismo  maligno di molti individui e diventano ossigeno esistenziale.

 

Nell’estinzione di un comportamento l’enfasi mediatica ha un ruolo in controtendenza, perché lungi dai provvedimenti che tra l’altro non riguardano i razzisti ( semmai il club per il quale tifano ) il dar dignità o rilevanza al comportamento offensivo significa incentivarlo, convincendo tra l’altro l’opinione pubblica che l’apartheid  sia un male incurabile.

 

Ciò avrà un eco nelle famiglie di colore che guardano il calcio in tv, per i compagni di un ragazzino che non ha la pelle bianca e per tutti coloro a cui uno sfottò di questo tipo  può suscitare mortificazione ed emarginazione . Un doppio effetto negativo che circolarmente rafforza e  dilata i fenomeni di discriminazione che non nascono negli stadi, lì si estrinsecano in una sfacciata e sfarzosa esibizione.

 

I comportamenti non rinforzati prima o poi si estinguono. Se i cori razzisti potessero essere ignorati dal calciatore e non menzionati da alcuna testata giornalistica,  perderebbero sia il loro valore di offesa, sia quello della notorietà dei suoi coristi. A lungo andare, trattati con  distanza,   questi comportamenti  risulterebbero  vani, perché non alimentati dal suscitare,  molla  del loro stesso esistere. Come dire: ciò che dice un demente mi lascia indifferente

 

Se d’altra parte qualcuno mi offende è perché io mi sono offeso, dando rilevanza al suo dire. Ma se decidessi che le offese che provengono da un interlocutore  insignificante per i miei valori e per  le mie certezze  hanno su di me “impatto zero”, ecco che le sue invettive mi rimbalzerebbe addosso inefficaci. Se non me la prendo, in altre parole, chi vuol provocarmi avrà armi spuntate. E se il tam tam  mediatico  ignorasse i gesti,  il provocatore si sentirebbe immerso nell’eco silenziosa delle sue ingiurie, primo passo per chiedersi a cosa serve reiterare  schiamazzi  che non interessano   a nessuno perché non  riescono ad intaccare  la dignità di alcuno.

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