Psiche e setting terapeutico

PSICHE & SOCIETA’ di Roberto Cafiso da LA SICILIA del 9.1.17

SENZA UNA BUONA COMUNICAZIONE LE CURE SONO FALLIMENTARI

Il contesto terapeutico medico-paziente  è un universo solo apparentemente a due. In realtà esso mette  a confronto non solo il terapeuta ed il cliente, ma anche i loro mondi, le culture, le tradizioni personali e le esperienze pregresse di ciascuno. A volte la relazione è a tre, se c’è di mezzo il farmaco o il bisturi, le altre volte sono essenzialmente due individui che si interfacciano da vicino, l’una per curare, l’altra per essere curata. Ognuna delle due componente è molto di più di una individualità.

Nei setting psicoterapici questo è ovviamente ancora più evidente. C’è un pensiero o un modo di vedere la vita disfunzionale che va trattato ed ha farlo è un’altra persona  in possesso di una tecnica e di una “teoria della mente” in grado di rimediare alla sofferenza, proponendo una sequenza ideativa alternativa, confutando pensieri irrazionali, sdoganando risorse che il paziente magari ha ma non conosce e non utilizza per una serie di condizionamenti ed automatismi.

Due mondi che si elidono, ognuno dei quali ha delle certezze, dei punti cardine, anche  se, nel caso di chi soffre,  del  tutto disfunzionali. Un incontro dove chi sa di più deve tenere conto di chi, sapendo meno,  ha bisogno di pazienza, surplus di competenze e mano sicura. Nelle relazioni a due in genere saltano sempre fuori alcune caratteristiche personologiche che connotano il rapporto. Dalla voglia di essere dominanti ( o dominati ) a quella di scandire  i tempi dell’esperienza o tenere il pallino del gioco ;  influenzare e a volte  manipolare il terapeuta per gestire il trattamento, secondo un desiderio di onnipotenza col fiato corto.

Chi cura deve conoscere tutto ciò. E deve analizzare se stesso, le proprie fragilità ed i bisogni. Perché entrambe le cose entreranno nel rapporto terapeutico e se non gestite potranno avere un peso decisivo per la buona riuscita della terapia. La mediazione di un farmaco ovviamente può attenuare   l’influenza dei fattori personalologici , ma non la elimina. Gli studi sperimentali sull’effetto placebo ci dicono che le aspettative di benessere sono direttamente proporzionali alla compliance terapeutica e che questa è il più delle volte  una prerogativa  guidata dal curante. I farmaci sono più incisivi se il paziente è motivato e si fida del terapeuta. Se con lui ha sviluppato un buon rapporto e se questi è visto  come un approdo sicuro, affidabile ed empatico.

L’empatia è una caratteristica  imprescindibile  in un rapporto di cura. Essa affonda la sue radici nella pietas nota tra simili a partire dal regno animale ed ha come presupposto il riconoscimento dell’altrui condizione o stato d’animo. Nei contesti di cura l’empatia è un cogliere la sofferenza dell’altro in modo autentico e tuttavia senza sbavature pietistiche o consolatorie. In questo caso l’empatia diverrebbe  addirittura controproducente, somigliando ad una sorta di commiserazione.  Un cenno a parte meritano i contesti dei malati terminali, ove le cure palliative e la vicinanza emotiva degli operatori evocano  anche la consapevolezza condivisa della prognosi. Qui il rapporto umano nelle fasi finali della vita non necessità di un camice.

In ogni ambito ove sia proposta una cura sempre un grosso peso hanno le parole. Il come ed il modo con cui vengono usate. L’appropriatezza e  per contro alcuni errori clinici dipendono dal modo con cui si affronta la relazione terapeutica, l’attenzione autentica verso chi soffre e la taumaturgia delle parole che si usano per prendersene carico. Il flusso di suoni, gesti, stati d’animo entra prepotentemente in ogni relazione di cura e chi non ne tiene conto e non ne governa i processi non sta curando, sta facendo altro.

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