Psiche e amore che terrorizza
NOI OGGI - PSICHE & SOCIETA’ di Roberto Cafiso
A volte ritornano. Paola Labriola, psichiatra barese uccisa da un suo paziente con cinquanta coltellate per motivi che lo stesso omicida non ha saputo motivare, ripropone il tema della sicurezza sociale rispetto alla malattia mentale. Ed in questi casi ritornano gli irriducibili nostalgici dei manicomi, ove la malattia mentale veniva circoscritta, lontana dalle logiche basagliane di cura e reinserimento sociale.
Della psichiatra di Bari, così come di tanti suoi colleghi in tutt’Italia, si è detto forse un po’ passionalmente che curava le piaghe dei cuori malati. Cuori ingrati, evidentemente, tanto da uccidere un benefattore. Forse non si saprà mai se l’acting out è stato spontaneo o provocato da una comunicazione inadeguata dell’operatore. Ad ogni modo nuovamente una levata di scudi per la contenzione e – magari - le guardie armate nei Centri di Salute Mentale. Tutto ha cittadinanza se si ha in mente il ripristino di regimi noti.
Che l’ammalato mentale oggi sia più complesso di prima è intuibile. E ciò per lo più a causa, oltre che per gli elevati stressor socio – familiari attuali, per la condizione di comorbilità, una sorta di circolo vizioso per il quale l’uso di sostanze copre o a volte slatentizza un disturbo psichico di base. Questo viene “auto medicato” dall’uso di droghe sino a quando il soggetto verrà preso in carico dai servizi e trattato anche farmacologicamente, talvolta in modo poco coordinato o fortemente delegante. Il mix di droghe e psicofarmaci in sommatoria peggiorerà il quadro generale, ovvero renderà le reazioni del paziente del tutto imprevedibili.
E’ ovvio che su questa frequente casistica possiamo invocare o i lager con mura di cinta elettrificati o un’organizzazione dei servizi che preveda, ad esempio, il monitoraggio in equipe delle “doppie diagnosi” tra servizi di Salute mentale , Sert o Neuropsichitria Infantile, in una sinergia migliorabile, con un intervento più saliente dell’equipe sul versante patologico preminente, che ovviamente nel tempo tenderà a confondersi sovrapponendosi continuamente. Scontato che per queste “buone prassi” serve personale quantitativamente adeguato e qualitativamente preparato. Perché in certi settori sanitari, il burn out, ovvero l’esauribilità e la demotivazione dell’operatore, è più accentuato che in altri . Da ciò può accadere che una comunicazione non modulata col paziente, con la sua agitazione, ovvero con una un nucleo paranoico non evidenziato a prima vista , possa provocare un passaggio all’atto inaspettato.
La Sanità si può fare in tanti modi e il prendersi cura del pazienti da parte dei singoli operatori è spesso considerata un’ araba fenicia. In vero questo luogo comune è ingeneroso. E se le aggressioni ad operatori restano sporadiche è perché la maggior parte di essi si dedica ai pazienti con attenzione ma anche con una buona offerta di compliance , “scaricando” , come in una “messa a terra” elettrica, la tensione nervosa che i pazienti accumulano in maniera rapida e spesso ingestibile.
Talvolta pubblico e privato del settore privilegiano la residenzialità protratta ( che poi sconfinerà nella cronicizzazione ) mal utilizzando gli operatori ed impegnandoli, a dispetto delle proprie doti personali e competenze, in ruoli di custodia del degente più che di cura e restituzione al territorio. Non è la prassi consolidata, ma è frequente. Questa modalità “tranquillizza” la società ma condanna individui che, come altre esperienze dimostrano, potrebbero invece imparare ad autogestirsi e lavorare, magari sotto monitoraggio, ma fuori da recinti di ogni tipo.
Ogni caso è un caso a sé, non v’è dubbio. Ma dentro una collettività inquieta ed incerta i deragliamenti verso anomalie o patologie psichiche sono sempre più frequenti. Il sistema resta fragile ed incapiente rispetto alla domanda. Il potenziamento delle postazioni socio – sanitarie nell’ambito della Salute Mentale è un’opzione della politica, che deve farsi carico della qualità di vita del singolo e della collettività.