Psiche e ansia esistenziale
di ROBERTO CAFISO da LA SICILIA del 12.2.16
L’ANSIA ESISTENZIALE SPESSO E’ DI CHI HA UNA MARCIA IN PIU’
Si chiama ansia esistenziale e non ha una connotazione patologica certa. E’ una condizione a volte trafelata di voglia di fare e ad un tempo di paura che la vita svolti in malo modo, lasciandoci in scacco. Una sorta di attesa , spesso spasmodica, sulla quale si possono sovrapporre temi depressivi. Tant’è che a volte si parla di “depressione esistenziale” . Insomma un coacervo di attesa e di malinconia di sottofondo, che tuttavia è scorretto rubricare come distimia, depressione reattiva, depressione maggiore o comunque disturbo d’ansia generalizzato. Eppure con facilità queste persone sono invitate ad assumere psicofarmaci domaminergici e sorotoninergici che non risolvono la loro condizione, visto che l’ansia esistenziale è un velo sfumato che si è posato su individui sovente con una marcia in più, ma pieni di dubbi e aspirazioni . Gli esseri umani, sotto spinte illusorie e commerciali, tentano da sempre di robotizzare l’esistenza, attraverso procedure semplicistiche per sfuggire al dolore e conquistarsi la condizione di uno status senza patemi.
La nostra stessa evoluzione psichica e l’autocoscienza che abbiamo sviluppato, quella che ci ha distanziato dai bisogni primari come mangiare, bere, dormire, accoppiarsi , che rendono invece appagato un animale , ci ha reso in bilico tra il desiderio mai sopito d’ immortalità e la presa d’atto del nostro dover finire prima o poi. Già questa divaricazione, dai Greci antichi a Nietzsche e sino ad oggi, giustifica l’ansia esistenziale di chi comunque non ha mai tregua interiore ed è scontento di fondo. Come se la gioia assaporata dopo un po’ assomigliasse alla stasi, al fermarsi, tracimando nell’idea della morte che va rifuggita ad ogni costo.
Attraversare il dolore non è d’altronde un’impresa facile. Comporta grande capacità di sopportare e ad un tempo certezza di percorrere l’unica strada possibile, senza il dubbio che sia meglio di mollare. O magari a piangere e auto commiserarsi per suscitare pietà e conquistarsi la benevolenza degli dei. Il conoscersi al di là dell’agognata felicità, araba fenicia per gli esseri umani e di breve durata, è in grado di dare serenità. Una condizione capace di contrapporsi all’ansia esistenziale. Perché si smette di ricercare lo stato di grazia costante, dirottando i propri sforzi verso un benessere instabile ma ristoratore, che può accompagnarci per lungo tempo, senza poi doverci deludere. “Conosci te stesso” è d’altra parte il motto iscritto sul tempio di Delfi. Avere consapevolezza delle proprie tendenze, inclinazioni, caratteristiche ad occhi aperti. Chi da del tu ai propri demoni interni, smette di averne paura ed accede ad una forma di armonia interiore che è un ottimo viatico per vivere più sereni . Perché il proprio destino è il destino di tutti. Col patos dell’anima si può imparare a convivere, visto che per alcuni esso è la molla per andare avanti e superare gli ostacoli.
Il dolore, come l’ansia ben gestita, fortificano. Fanno anticorpi esistenziali necessari a conclamare una resilienza che diventa un elisir esistenziale. Non piegarsi e non sentirsi sconfitti è un antidoto all’ inquietitudine che non è una malattia cronica, ma una condizione per la quale ci sembra di dover soccombere per poi comunque rialzarsi sempre. Risorgere dalle proprie ceneri, come l’uccello mitologico Araba Fenice che resuscitava ogni volta dalla morte. Impiegare energie per fare, senza crogiolarsi è un altro contravveleno utile per non soccombere ai pensieri irrazionali e privi di prospettive che l’angoscia produce. Così come è utile fare regolarmente un’attività fisica. In fondo l’ energia prodotta, per un basilare principio fisico, deve essere bruciata attraverso i muscoli, pena l’auto combustione interna. Infine l’accettazione che il nostro percorso di vita è a termine, dove ogni età ha i suoi limiti e le sue vette e che non si deve mai puntare sul quanto, ma sul come si vive. Ogni viaggio può innescare un’ ansia intrinseca al divenire, ma il rifiutarsi di incamminarsi renderebbe insopportabile la nostra presenza nel mondo che nessuno di noi può congelare in un lifting dell’essere senza fine.