Psiche e le parole per dirlo

ROBERTO CAFISO
Da LA SICILIA del 7 .11.14

LE PAROLE PER DIRLO………..

 

Le parole per dirlo. Quando il medico deve informare il paziente della prognosi per lui più infausta si apre uno scenario condensato dove la vita si deve rimodulare  in un attimo e per un  arco temporale del tutto inedito. Dove i giorni saranno  percepiti come mesi e questi come anni. Come se tutto si spostasse in avanti, in una scansione del tempo allucinata, rallentata, necessaria.

 

Come dirlo. Le diagnosi che non lasciano scampo sono l’epilogo esistenziale  inusitato, sempre difficile da digerire.  Un conto è la comunicazione ai parenti, dove il medico può persino essere esplicito, pur con le  dovute  cautele. Un altro è quella al paziente, ove al di là del consenso informato previsto, occorre usare più di una cautela. In gioco c’è la qualità della vita  sostenibile di quella persona.

 

La legge sul consenso  impone di essere chiari e comprensibili con i pazienti.  Ma i meccanismi di difesa intrapsichici e la latenza necessaria ad individuo  per contemplare  l’idea della propria dipartita,  richiedono spesso  altro. Una dicotomia che talvolta  impone un atteggiamento modulato  del comunicatore : un’assertività empatica e l’uso di un ricco vocabolario ,  ove siano possibili metafore, allegorie, idiomi, esempi ;  e tutto quanto dica senza pronunciarla  la parola morte, lasciando ai tempi del paziente il significato  autentico delle proposizioni usate.

 

Solo allora si potrà  concordare e confermare  con pietà e partecipazione. Doti che solo i grandi medici  posseggono. Non sono doti innate. Ma strumenti del mestiere, acquisiti  nel corso della propria vita professionale. Essere “commestibili” e ad un tempo scientificamente corretti  è una  dote immensa  per chi svolge un mandato di salute. Le parole ben pronunciate leniscono i mali, curano, talvolta possono persino determinare  destini, se è vero com’è vero che un impatto violento con la realtà può determinare la spinta ad anticipare l’epilogo annunciato.

 

Gli approcci oltre oceano al riguardo sono crudi e diretti. Rispecchiano una cultura dell’essere e del fare asciutta, senza le cautele verbali  da smussare, che girano concentricamente attorno all’idea della morte e  che talvolta sono l’intercapedine tra la comunicazione e la presa d’atto reale. La chiarezza non sempre è sinonimo di   verità. Perché questa non è unicamente quella che sa chi la comunica, ma è soprattutto quella che riesce a concepire la persona a cui viene comunicata. Non siamo figli delle procedure, ma di un’umanità fragile ed impaurita.

 

Il nostro futuro, breve o lungo , travagliato o sereno che possa essere , è spesso nelle parole di un vate  che ce lo preannuncia. E da come lo farà ne scaturirà un imprinting decisivo che segnerà  il  dopo . Per questo la competenza comunicativa, assieme ad un’adeguata analisi dell’interlocutore sono fondamentali a chi svolge l’arte sanitaria. Non si può improvvisare o ritenere residuale il dire certe cose rispetto all’averle diagnosticate. Non ci si può sentire a posto solo nell’uso corretto dei protocolli terapeutici del caso, delle cure palliative più utili, bypassando  la relazione col paziente.

 

Analisi della storia del paziente, risorse culturali, capacità di comprensione, sistema delle credenze individuali, presenza o meno  di  resilienza , capacità di far fronte a frustrazioni, stressor e lutti ( come evidenziato da episodi passati ) , capacità adattive, duttilità o rigidità delle difese personali,  esistenza di un adeguato supporto familiare, condizioni psicopatologiche in atto ( presenza di stati depressivi e rischio di gesti non conservativi ),. Sono questi i fattori fondamentali da tener presente per dare un’informazione  congrua  al nostro paziente. Non considerarli vuol dire innescare una bomba ad orologeria nella sua mente con effetti  sovente più devastanti della stessa malattia rappresentagli.

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