Psiche e mobbing
PSICHE & SOCIETA’ ROBERTO CAFISO DA LA SICILIA DEL 18.2.16
IN TEMPI DI CRISI RICORRERE AL MOBBING PUO’ DIVENTARE UN RIMEDIO…..
La facilità con cui si cercano indennizzi in tempi di congiuntura intentando cause alle aziende private o alle amministrazioni pubbliche per presunte condotte lesive contro il singolo, ha indotto da tempo la magistratura , nei suoi più alti ranghi, a pronunciarsi molto restrittivamente e comunque con estrema cautela nelle cause intentante per mobbing, oggi termine molto utilizzato per intimorire un superiore o un datore di lavoro e indurlo a desistere dal pressare un dipendente.
Nel tempo la parola ha acquisito per generalizzazione un significato ambiguamente oppressivo in senso lato, evocando in sede giurisdizionale richieste di risarcimento per presunto danno psicofisico e talvolta esistenziale. Anche questa una tendenza molto diffusa. Ma i pronunciamenti dei giudici, dopo la panacea di una decina di anni fa, dove sembrava fosse stata trovata la panacea per il ristoro dei lavoratori maltrattati , sono diventati sempre più cauti e restrittivi, probabilmente a causa dell’abuso e della temerarietà di molte cause.
E così oggi viene richiesta una accertabile condotta sistematica e reiterata da parte del mobber , vale a dire un comportamento chiaramente ostile che finisca per assumere forme di prevaricazione e persecuzione a livello relazionale, con un forte impatto psicologico. Da qui può scaturirne la mortificazione e l’emarginazione del dipendente , con una cascata di conseguenze lesive a livello psicofisico e dunque una minaccia concreta per il suo stato di salute.
Non basta dimostrare le intimidazioni abituali del capo o le sue modalità ruvide ed autoritarie nei confronti dei dipendenti. E neppure l’arbitrio nel non concedere ferie o assegnare turni di lavoro onerosi. Non sono sufficienti neppure le certificazioni mediche attestanti una sindrome depressiva ed altri screzi di natura psichica prodotti come effetto della condotta del capo. Una sentenza della Cassazione in particolare ( la numero 18039 del 2015 ) recita che non è sufficiente dimostrare l’esistenza di conflitti, presenti in ogni ambito lavorativo. Questi devono essere rilevanti ed avere carattere chiaramente persecutorio.
Questi comportamenti devono cioè essere sistematici, quasi studiati a tavolino dal capo e prolungati nel tempo contro il ricorrente. Non solo : ma deve essere dimostrata la conseguenza dell’evento lesivo che ha inciso sull’ assetto psicologico del dipendente. In altre parole un evidente rapporto di causa / effetto tra l’input del datore di lavoro e l’output a danno del reclamante. Un nodo difficile da sciogliere quello del nesso di causalità eziologica tra il comportamento del datore di lavoro e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore.
Non ultimo è dato onere al lavoratore dimostrare l’intento persecutorio del capo. In altre parole per poter addebitare al datore di lavoro le conseguenze sulla salute è necessario che venga prodotta la prova della piena coscienza da parte del superiore gerarchico di danneggiare il subalterno e il conseguente deliberato consenso. Cioè: so di farti male e voglio fartelo scientemente . Una prova certamente difficile da portare in aula, giacché a volte le dimensioni delle amministrazioni o imprese ove avvengono certi conflitti sono talmente estese da rendere indimostrabile la presunzione di colpa del leader o la complicità da parte delle direzioni dei vertici aziendali.
Un passo indietro delle giuste rimostranze di quei lavoratori oggetto di mobbing ? Forse si. O forse semplicemente un restringimento di carreggiata nell’autostrada del risarcimento facile e degli screzi all’equilibrio psicologico strutturalmente labile di molti, dove anche un colpo di vento può creare le condizioni per reiterate assenze per malattia, presupposto per accedere in modo più o meno veritiero o fraudolento allo status di emarginato e perseguitato con un diritto soggettivo ad un risarcimento esclusivamente economico.