Psiche e pedofilia in carcere
PSICHE & SOCIETA’ da La Sicilia del 26.6.15
ROBERTO CAFISO
PEDOFILIA E TRATTAMENTO IN CARCERE
Il trattamento dei pedofili in carcere è ad oggi un’opportunità per pochissimi detenuti con problemi di parafilia conclamata. Due o tre case circondariali in Italia offrono questa possibilità attraverso trattamenti individuali e di gruppo a chi si è macchiato di questo reato . La psicoterapia è la cura elettiva ( considerato che in Italia sono vietate le opzioni costrittive , tipo la castrazione chimica ) e prevede due momenti fondamentali : l’ammissione della colpa intesa come presa di coscienza di malattia e ad un tempo del danno procurato, e l’automonitoraggio come stile di vita futuro sugli impulsi. Essi partono dai pensieri. Si desidera infatti ciò che si vede e la prima forma di “reato” avviene proprio in testa, con la spinta ideativa ad emettere taluni comportamenti. E’ a questo livello che si dovrebbe imparare a disattivare l’impulso. Proprio quando si sta incanalando nella spinta all’azione.
Ovviamente per le patologie intervenienti o sottostanti le parafilie, come i disturbi dell’umore o il discontrollo degli impulsi, possono essere previsti anche trattamenti farmacologici mirati. L’obiettivo è il recupero del soggetto, sia per la mission teorica della detenzione che prevede il tentativo di recupero, sia per la restituzione di un padre, un nonno o una zio ai suoi congiunti. Non ultima la tutela della collettività circa il reiterarsi di certi reati, i cui esiti sono in grado di segnare indelebilmente le vittime. E’ noto che gli abusatori sono stati a loro volta abusati nell’infanzia. Ciò non costituisce alibi, ma è un dato di fatto che descrive una modalità subita ed appresa nell’ approcciarsi all’affettività e al sesso. La spietatezza delle società nei confronti di questa patologia considerata non a torto orribile, preclude a volte ai carnefici la possibilità di curarsi. Non solo in carcere questi reclusi sono confinati in reparti dedicati per evitare le violenze da parte di altri detenuti, ma non pochi terapeuti rifiutano di trattarli per un pregiudizio nei loro confronti.
Sull’esito dei trattamenti in regime di detenzione sono opportune tuttavia alcune considerazioni. Se da un lato, come detto, vi sono forti preclusioni nei confronti dei pedofili , dall’altro, al contrario, si può assistere talvolta ad una sorta di mandato eroico dei curanti, sulla scorta dell’ “io ti salverò” , rilevando miglioramenti ed inversioni di tendenze in questi pazienti per legittimare il proprio impegno e la spinta salvifica al loro recupero. Tentazione pericolosa se non si sa bene come valutare le terapie e se soprattutto non si è effettuata a monte una corretta diagnosi. E’ raro infatti trovare una pedofilia essenziale, senza altra patologia di base. Sovente essa è l’espressione ad esempio di un disturbo di personalità, segnatamente del tipo 2 ( antisociale – narcisistico- istrionico – borderline). In tal caso il trattamento è delicato e pieno di insidie, anche perché questi pazienti , com’è noto in letteratura, simulano, manipolano ed ingannano gli operatori non esperti, tanto da essere stata descritta la sindrome di “pseudo identificazione maligna” che riguarda i terapeuti, portati a coinvolgersi troppo con questi pazienti, con esiti pericolosamente incerti ed una prognosi a fine pena molto dubbia.
Il sistema più efficace per dare opportunità ai pedofili di riabilitarsi sembra dunque essere quello di una presa in carico ed un monitoraggio che non duri solo il tempo della detenzione, ma preveda step di controllo e richiami obbligatori anche fuori dal carcere, tramite il Sistema Sanitario Nazionale. Coinvolgere i familiari è necessario, come lo è il persuadere il paziente circa la necessità di sottoporsi ad un’osservazione protratta nel tempo. Se è giusto che ciascuno ha diritto alla migliore chance, è parimenti doveroso che la frangia di collettività più indifesa e fragile, venga protetta. Coniugando questa doppia esigenza si può arrivare a non demonizzare certe patologie , pur non trattandole ingenuamente solo come espressioni post traumatiche ansioso – depressive.