Psiche e pregiudizio
PSICHE & SOCIETA’
ROBERTO CAFISO
E’ difficile superare il pregiudizio. Esso nasce da un assetto psicologico irrigiditosi per un tentativo di stabilità che spesso diventa patologico se la cristallizzazione ideativa ha assunto paratie non perforabili da contenuti culturali o
da riflessioni ponderate e confronti.
La diffidenza verso il prossimo è un modus vivendi di molte persone che avallano diffusi livelli di misantropia con l’alibi che i tempi difficili che viviamo non rassicurano circa le buone intenzioni del nostro prossimo, dal quale perciò è bene guardarsi a vista. Un eccellente esempio di ragionamento tautologico.
Il grado di scolarizzazione non sempre è un deterrente per il pregiudizio che in ultima analisi è una paura radicata di ciò che appare diverso. L’apertura mentale va di pari passo con altri prerequisiti ( la curiosità, il coraggio, la pietas, la disponibilità verso il prossimo, ….) che non si acquisiscono con un titolo di studio, ma si esercitano all’interno di esistenze al contatto con l’analogo ma anche col discorde.
Lo stigma è la mano armata del pregiudizio. Esso configura una modalità critica di biasimo e censura per tutto ciò può minacciare la normalità a volte confezionata a nostro piacimento. Un esempio classico è la malattia mentale, sdoganata dalla legge Basaglia da condizione di contenzione cronica a patologia evolutiva con opzioni di guarigione e restituzione sociale, alla stregua di molte altre malattie organiche a prognosi lunga o incerta.
La percezione dell’ammalato mentale resiste nella nicchia ideativa della irrecuperabilità e, in taluni casi, della pericolosità. Questo pregiudizio ancora molto diffuso viene supportato da esempi clamorosi di squilibrati che commettono reati contro la persona. Pertanto, si conclude, andrebbero rinchiusi tutti. Che è come dire: siccome molti pazienti oncologici muoiono non spendiamo in cure e ricerche perché è inutilmente dispendioso. Aspettiamo che muoiano.
In realtà la stragrande maggioranza delle persone con problemi psichici non sono pericolose, ma vivono un disagio doppio. A quello tipico della loro malattia va aggiunto il rifiuto o la cautela sociale che pesa come un macigno e che concorre ad esacerbare in loro l’idea di essere irrecuperabili e dunque di confermare in maniera perversa il pregiudizio di fondo che incombe sulla loro condizione che purtroppo alcune volte coinvolge gli stessi operatori curanti.
Sappiamo che i manicomi erano luoghi di conservazione della malattia, di disperazione e di cattive prassi terapeutiche. Oggi in non poche latitudini italiane la detenzione sanitaria si attua in strutture più piccole , ad impronta manicomiale, allorquando la permanenza al loro interno oltrepassa i limiti fissati dalla legge con i pretesti più vari, come d’altronde accadeva negli ospedali psichiatrici.
Lo stesso dicasi per un’altra categoria di ammalati: i tossicodipendenti. Questi addirittura non hanno, nella diffusa considerazione sociale, neppure la dignità di pazienti, venendo considerati viziosi, responsabili della loro sorte, delinquenti e basta. Insomma un pregiudizio sulla loro recuperabilità che può inficiare le occasioni e le risorse per curarli al meglio, nel tentativo di farli transitare dalla condizione di craving per una o più sostanza a quella stabilizzata di drug free.
Attraverso il pregiudizio si commettono reati sociali non punibili esplicitamente. L’emarginazione, i tabù, la superstizione, i luoghi comuni, il rifiuto intollerante sino alla violenza fisica, sono le sciabole di una categoria umana di “realmente fragili” nei confronti delle fragilità sancite per legge che paradossalmente non di rado hanno molti più strumenti adattivi rispetto ai loro indefessi aguzzini.