Psiche e violenza sulle donne
PSICHE & SOCIETA’
ROBERTO CAFISO
La violenza sulle donne è un tema che scotta e che si incunea tra una serie di luoghi comuni e pregiudizi e . I primi riguardano l’idea che le donne forse spesso esagerano o mentono. I secondi che le donne talvolta istigano la violenza con il loro comportamento. Poi ci sono i “non detti” , i pensieri irrivelabili, ovviamente di segno maschile, per i quali si fa tanto rumore per nulla, visto che gli omicidi e le violenze sono in aumento a prescindere dal genere femminile. Una rimozione sociale.
Su questo dibattito si affacciano tutte le ombre contraddittorie dell’emancipazione delle donne decollata circa mezzo secolo fa. Un iter applaudito in pubblico ma rallentato dal potere legislativo e di quello giurisdizionale colorato prevalentemente di azzurro. Iter giudiziari spesso farraginosi e senza eccessive garanzie per il post denunzia, pongono le donne in condizioni di estrema difficoltà nella scelta di far emergere i comportamenti violenti dei partner.
A ciò aggiungasi una naturale ritrosia, frutto di secoli di subordine al maschio per motivi di soggezione fisica ed economica. Una resistenza coacervo di remore, sensi di colpa e spinte dissuasive ad opera della stessa famiglia di origine che al di là dei lividi o delle ferite continuano ad interpretare la denuncia come un’indebita esposizione pubblica di fatti intimi, con conseguenze irrimediabili sul rapporto coniugale e sui figli. Un ricatto morale in piena regola ove la tenuta stagna di un ‘unione inesistente è prioritaria rispetto all’incolumità fisica oltreché morale di una donna.
Le pressioni condizionano e suggestionano e le querele alle forze dell’ordine si annacquano alla presenza dei cosiddetti “padri di famiglia” in divisa che provano a smussare, placare e rimandare il “nero sul bianco” che una donna si era convinta a formalizzare dopo mesi o anni di vessazioni e dilanianti dubbi. Della liturgia del buonismo fa parte anche la convocazione in caserma o in commissariato del partner violento che viene redarguito ma poi, con una pacca sulla spalle, rimandato a casa con la raccomandazione dei migliori propositi per l’avvenire. Una serie di pannolini caldi che di norma convincono l’uomo di una sorta di impunità emanazione di quel diritto di vita o di morte di ancestrale memoria.
Ma la verità è che vittime da un lato si nasce, dall’altro ci si diventa. Il ruolo femminile tradizionale gioca una funzione chiave nell’anatomia dei processi di sopraffazione. La preda nel regno animale ha gambe veloci per scappare dal predatore che la individua per divorarla. Ma le donne sono impastate ancora di un malcelato senso della tolleranza, del desiderio di compiacere subendo e sacrificandosi se il caso. Terreno fertile per i prepotenti e per gli psicopatici con un sorriso ingannevole sulla labbra. Queste donne non scappano quando ancora sono in tempo. Hanno perso il fiuto dell’autoconservazione e aspettano, sperano, sino a morire di congetture e ragionamenti irragionevoli.
I predatori sono nel regno umano spesso antisociali, camuffati da passionali con un indice di gelosia che a prima vista compiace l’amata. Ma non c’è nulla di dolce in loro: solo il senso del possesso, del dominio e la pretesa della sottomissione della preda. Guai a cenni di insofferenza o ribellione. Il predatore sa fare male. Per questo tergiversare è un errore che può essere persino fatale. Oggi esistono associazioni a tutela della donna e dei figli, c’è una normativa speciale sullo stalking circostanziata. Ma vanno fatte le denunce in tempo per mettersi al riparo dall’incubo della savana che se esorcizzata con le denunzie e l’assistenza legale svanisce come a risvegliarsi da un incubo. Chiunque voglia non farsi fare del male oggi ha molti più strumenti di qualche anno fa. Non prenderne atto è come abbandonarsi ad un destino che nessuno ha scritto e di fronte al quale nessuna ha il diritto di mostrarsi rassegnata.