Testimonianze

Lettera di un padre ad un figlio in comunità

Caro P.,

provo a scriverti e ad esprimere ciò che sento. Non è molto facile per me, ma ci provo.

Ti ho accennato per telefono del problema che mi porto dentro e del quale desidero parlarti: vorrei che tu mi aiutassi. Il mio problema (anche della mamma, credo) è che voglio farti capire con tutte le mie forze, quanto bene provo per te, quanto vorrei esserti vicino e quanto ho bisogno delle tue confidenze, della tua amicizia,  soprattutto del tuo affetto. Credimi, è la cosa più importante (da tempo) della mia vita, è il mio vero obiettivo.ragazzo di spalle

Puoi aiutarmi? Quando sono venuto per Natale a trovarti, mi sentivo tranquillo, poi mi ha preso una tenaglia dentro e tutti i miei sentimenti(di gioia nel vederti, di amore nello scoprire mio figlio uomo nuovo con cui cercare di avere una cara meravigliosa amicizia) si sono presso che bloccati. Ed allora i discorsi(miei) sono stati banali ed i silenzi mi pesavano come imbarazzo, e più volevo dirti quello che portavo dentro e più non riuscivo ad esprimermi. Io credo che in cuor tuo tu sappia il bene grandissimo che io sento per te. Anch’io so per certo che mi vuoi bene e non solo da ora. Mi rendo conto di aver sbagliato in molte occasioni e di averti spesso deluso, ma ti prego di credermi quando ti dico che sono cambiato, che mi sento diverso e che voglio bene a P. per quello che P. è stato.

Ma se non mi dai una mano, temo proprio di non riuscire a fare “breccia” nel tuo cuore, perché desidero proprio entrare dentro di te con la sola gioia di volerti bene per far sì che tu mi senta vicino. Mi dai una mano? Sono certo che con il tuo aiuto ridurremo le distanze via via, fino ad essere veramente vicini anche se poi staremo lontani di persona, ognuno nella sua vita.

Credo sia veramente un grandissimo traguardo gestire”insieme” questi problemi, buttando giù tutte le barriere che ci hanno diviso.

E se è bello gestire insieme un problema, penso quanto lo sarà di più gestire una gioia che ci portiamo nel cuore, una crescita, la nostra “rinascita”.

Ti abbraccio forte forte.

papà

 

 

 

Testimonianza di un genitore(18 luglio 1985)

E’ stato nei pressi di Porta Pia a Roma che ho visto per la prima volta in vita mia davanti l’ingresso di un sottopassaggio intransitabile, di un cumulo di immondizia e da transenne sgangherate, un gruppo di giovani che si bucava.

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Intanto mio figlio cresceva, forse troppo in fretta, senza accorgermene, senza avere avuto il tempo di seguirlo, di stare attento, soprattutto, ai suoi cambiamenti. Ed ecco che quasi di un tratto, mi sono trovato dinanzi ad un uomo fatto, con la sua personalità e con i suoi problemi. Il corso dei suoi studi è stato portato avanti sempre con molta difficoltà, pur essendo dotato di intelligenza abbastanza pronta. Probabilmente avranno influito i continui spostamenti delle sedi di studio a causa dei miei ripetuti trasferimenti per motivi di lavoro

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Dopo il travagliato servizio militare, il ritorno a casa non migliorò la situazione che, al contrario, andava peggiorando di giorno in giorno.

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Mentre i miei dubbi si facevano via via più radicati, appresi un giorno la terribile verità: mio figlio si drogava. Assalito da un senso di sgomento, non fui in grado di continuare il mio lavoro d’ufficio che abbandonai lo stesso giorno(e per diversi mesi ancora) in preda ad una grande disperazione. Non sapevo proprio cosa fare, da che parte cominciare, a chi rivolgermi per ricevere consigli, un po’ di aiuto. Da qui i primi contatti con “telefoni amici”, primo tra tutti quello di Roma e con altri centri di recupero ed infine, quello di Siracusa, della Comunità terapeutica “Rinascita”. Ma lui non era convinto di fare un percorso di recupero perchè non si rendeva pienamente conto del suo grado di devastazione e della gravità della situazione

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Le prime avvisaglie di oggetti di valore spariti da casa. Tutto, ormai, era fin troppo chiaro. Mancava con lui ogni contatto, il minimo dialogo. Stava solo nella sua camera, rifiutava tutto e tutti. Non ebbi altra scelta che scrivergli una lettera che ho fatto scivolare al di sotto della porta della sua camera. Essa dice quanto segue.

Caro F.,

sono passati oltre 23 anni da quel mattino dell’anno 1961 in cui il mio cuore e quello di tua madre, dopo tante trepidazioni, si riempiva di immensa gioia per la nascita del secondogenito, il “maschio” che coronava il sogno di una famiglia già allietata dalla prima figlia. Ricordo, ora, più di prima, gli anni della tua tenera fanciullezza, l’irrequieto e grazioso bambino su cui cominciavo a riporre tutte le speranze che un padre può avere nei confronti dei propri figli. Tanti sogni, tanti castelli e la speranza di poter trasferire a te, il meglio di me stesso, gioire di ogni mio sacrificio, perché volto a costruire il tuo avvenire e soprattutto di aiutarti a poter diventare un giorno un uomo di cui avrei dovuto essere orgoglioso per tutto il resto della mia vita

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importante è che da ogni esperienza, anche se negativa, si sappia trarre il dovuto insegnamento per poter regolare il comportamento futuro. Sei cresciuto molto in fretta e mi ritrovo, ora, di fronte ad un uomo. Ho, forse, dedicato, sbagliando, la maggior parte del mio tempo e delle mie energie al lavoro sempre con lo scopo di poteri dare il maggiore benessere possibile ma è passato tanto tempo e la realtà ha trasformato ogni cosa, travolgendo tutto e tutti

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Voglio esortarti a riflettere profondamente. Tu sei l’unico artefice della tua vita e, come tale, hai il diritto di viverla come ritieni. Ma, in questo momento non hai la forza e la serenità per poter valutare la tua situazione. Non ti ho condannato sin dal primo momento per tutto quanto è successo perché ho avuto un unico obiettivo, quello di poterti essere di aiuto in qualunque modo. Mi hai tenuto estraneo a tutte le fasi del tuo dramma, mi hai sempre rifiutato, erigendo un muro tra di noi ma spero che tu possa avere momenti più sereni per capire che noi soli della tua famiglia siamo le uniche persone che ti vogliono veramente bene e che vogliono aiutarti.

Ti trascini di giorno in giorno con questa “bestia” che si è impadronita di te e che ti ha trasformato in un altro uomo. Ti do atto che hai fatto più di un tentativo per poter uscire da questa situazione, ma che la tua volontà, ormai annientata da tale bestia non ti ha consentito alcuna nuova apertura.

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Ti sentirai certamente un uomo infelice e per questo forse hai cercato illusori e pericolosi paradisi artificiali che, al di là di brevi attimi di falsa felicità, ti hanno letteralmente sconvolto la vita. Come padre ho il dovere di metterti dinanzi a questa alternativa: o decidi cambiare completamente la tua vita chiedendo aiuto ad un centro di recupero o vai per la tua strada.

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Il tuo papà

Dopo qualche giorno, mio figlio mi incaricò di prendere contatto con la Comunità di Siracusa. Dai primi colloqui con lo staff del Centro di Accoglienza, emerse la necessità , che io dovessi seguire mio figlio in questa fase di preparazione al programma in comunità (accoglienza). I problemi, le insicurezze, i complessi e le paure che F. si trascinava da diverso tempo senza farli mai trasparire, mascherati com’erano in ostentazione di apparente fiducia in sé stesso, specie nei rapporti con gli altri, assoluto riserbo in famiglia delle sue cose personali, assenza quindi, di dialogo con scatti di intolleranza e, a volte con aggressività violenta. Non ebbi mai in quel tempo percezione psicologica di tali comportamenti, né dei significati profondi che tali messaggi nascondevano. Nel corso dei successivi colloqui con  gli operatori del Centro emerse una grossa e remota conflittualità nei miei confronti. Per tale motivo venne richiesta obbligatoriamente la mia presenza durante tutto il periodo di Accoglienza. Drasticamente riluttante in un primo tempo a tale decisione, successivamente ammorbidì la sua posizione facendo posto gradualmente all’accettazione. Gli inizi furono molto difficili e sofferti da entrambi le parti. C’era, all’inizio, addirittura un senso di rifiuto anche a livello fisico. Oltre alla contestazione di tutto ciò che riguardava i nostri rapporti. Sentivo di avere una grande responsabilità ma di essere deciso a fare di tutto pur di salvare mio figlio. La paura, però, di non essere all’altezza della situazione ed il pericolo di qualche ricaduta per come venne a verificarsi sia pure episodicamente, mi turbarono togliendomi la serenità necessaria all’obiettiva valutazione dei fatti della nostra convivenza. Abbiamo diviso per circa tre mesi un’unica stanzetta in una pensione. Avvertii, a questo punto, la necessità di mettermi in discussione per poter capire qualcosa di quanto stava a monte dei tanti problemi di mio figlio. Intanto avevo cominciato a frequentare assiduamente gli incontri con i genitori tenuti dallo psicologo. Si aprì per me un mondo nuovo, fatto di attente osservazioni, di riflessioni, di confronti, di introspezioni di un’indagine a ritroso a partire dall’infanzia di mio figlio. Le nostre scarse cognizioni si arricchivano via via del largo dialogo aperto tra i genitori. Se si mette da parte la sofferenza che traspariva in noi tutti, si può ben dire che si trattava di una dolorosa ma meravigliosa esperienza. Vivere, amare, capirsi, al di là del titolo di una recente pubblicazione, incominciavano ad essere parole con nuovi e profondi significati volti alla ricerca di un miglioramento di noi stessi e principalmente del rapporto con i nostri figli. Ho imparato ad ammettere con umiltà gli errori commessi nei confronti di mio figlio, ad avere con lui un rapporto il più possibile paritario su di un piano di reciproco rispetto che ci ponesse l’uno di fonte all’altro, non come padre e figlio bensì come due uomini. Ho ammesso espressamente di sbagliare quando ritenevo di voler riprodurre in lui un certo modello della mia vita senza tenere nella giusta considerazione la sua personalità come un’entità a sé stante. Avevo sempre rifiutato atteggiamenti e comportamenti da me giudicati negativi come congeniti ed ineluttabili di un soggetto tendenzialmente predestinato ad imboccare vie traverse e pericolose, senza accorgermene che così facendo, non solo non lo incentivavo al miglioramento, rifiutando la sua personalità per quella che era, ma che inavvertitamente contribuivo a precludere ogni possibilità di dialogo ed erigere, quindi, nel tempo tra di noi barriere sempre più alte, fatte di cupi silenzi e di incomprensioni. Ho capito con ritardo quanto fosse importante manifestare senza vergogna i propri sentimenti, accettare incondizionatamente mio figlio per quello che è, la disponibilità principalmente all’ascolto, a sforzarmi ad avviare un dialogo autentico e tra pari, scevro da giudizi ed aperto alla discussione e al confronto. Sulla base di tale cambiamento che la sensibilità di F. non poteva non avvertire, ho avuto da lui una pari rispondenza ed una dimostrazione concreta ad aprire un dialogo tra noi che spero, possa svilupparsi sempre di più e durare per tutto il resto della mia vita. A distanza poco più di un mese dall’ingresso in comunità, riceviamo con tanta gioia una lettera dal contenuto così significativo del suo cambiamento che è superfluo ogni commento. Essa testualmente dice.

Lettera del residente F. al padre

Miei cari,

finalmente come starete pensando in questo momento vi scrivo e sono molto contento; io sono qui per ricostruire la mia vita e debbo essere molto egoista nel farlo, ma ciò non toglie che voi siate sempre nei miei pensieri. Vi confesso che adesso lo siete in modo diverso da come poteva essere per il primo periodo trascorso in comunità in quanto pensavo che la mia motivazione maggiore consistesse nel dare a voi una certa serenità ma adesso le mie motivazioni si sono completamente rivoluzionate. Ciò è da attribuire a quel periodo intercorso tra la prima e la seconda permanenza in comunità che, per quanto sia stato drammatico sia per me che per voi mi fatto capire quanto sia necessario cambiare e crescere, possibilità che mi viene offerta solo in questo posto.

Certamente la comunità non è un luogo di villeggiatura e di svago, ma la sua validità sta proprio in questo, cambiare, crescere, maturare sono solo il frutto di una sofferenza costruttiva; ogni difficoltà viene affrontata e non hai la possibilità di fuggire, di evitare, quanto meno sei consapevole che non ti serve farlo. L’unico appoggio è l’affetto e l’amore dei miei compagni che mi danno la forza di andare avanti.

Ho sentito il bisogno di comunicarvi quanto sia importante l’essere qui ed in questo modo vi sento più vicini e spero sia lo stesso anche per voi. Ma ognuno per la sua strada, due strade che per adesso sono lontane ma marciano in parallelo e che un giorno si congiungeranno nell’amore e nel rispetto reciproco.

Ho saputo che non mancate agli incontri di gruppo con gli altri genitori e ciò mi riempie di gioia.

Un bacione a voi tutti. F.

Riprende la testimonianza del padre:

si apre così, nella speranza, la strada della salvezza di mio figlio. Le riunioni al centro continuano con la “terapia di gruppo” delle famiglie dei residenti. La prima sensazione che ho ricevuto da queste riunioni è stata quella di trovarmi non tra persone estranee, ma conosciute da sempre. Il filo che ci riconduce ai nostri figli ha creato tra di noi immediati e spontanei rapporti di affetto, solidarietà e comprensione. E’ molto bello il ritrovarsi come in una nuova famiglia. Gli argomenti da di discutere sono tanti ma alla fine me ne torno a casa più vicino a mio figlio e fortemente ricaricato di nuova energia per proseguire nell’avviato cammino.

Il padre di F.

Testimonianza di una ragazza: un’esperienza di “rinascita” in una comunità terapeuticaper il recupero delle tossicodipendenze

 

(1)Rinascita: ciak, si vive.

C’erano notti difficili per me, quando ancora mani invisibili tentavano di trascinarmi via, fuori del cancello che avevo varcato per disperazione; poi mi facevo piccola nel mio letto, dentro il grande capannone. Cercavo il silenzio dei pensieri per ascoltare soltanto il fruscio delle foglie degli alberi intorno alla casa. Ricordo questo di “Rinascita”; la grande sicurezza, la serenità che nel buio mi regalavano quelle foglie . Una  “coperta”  che mi proteggeva. Ci ripenso spesso, oggi. La mia vita, adesso che ho finito il programma di riabilitazione, è ricca di  “foglie” sicure, ma soprattutto è l’albero ad avere forti radici. Ho dovuto sudare per guadagnarmi questo, per tagliare col passato. Dodici anni, dodici lunghissimi anni. Tanto è durato il mio periodo di devianze, di tossicodipendenza. Avevo tredici anni quando ho iniziato. Prima il fumo, lo spinello, poi il passo verso il mondo dove i nomi, i termini diventano sempre più strani, dove la morte ha decine di sinonimi: siringa, ago, cucchiaio, polvere, dose, etc. ,etc.

ragazza di spalleNon so perché abbia iniziato. Forse per troppa insicurezza, forse perché in balia di quello che mi stava intorno e non riuscivo o non volevo capire. Una cosa è certa: era colpa mia. La mia era una vita come milioni di altre; con ansie, problemi, uguali ad altri esseri. Ma cercavo un alibi,qualcuno a cui addossare la colpa di quei veleni. E allora, ecco lì i miei genitori, la mia famiglia, né migliore, né peggiore delle altre. Adesso che ho acquistato una nuova dimensione, adesso che esisto, c’è un rapporto meno conflittuale  con i miei genitori.

Mia madre fa…. la mamma, anche se ha capito che la sua bambina si è liberata di un fardello ingombrante ed è diventata donna. Con mio padre parlo. Non lo avevo mai fatto; ci mandiamo qualche volta a quel paese, ma ci commuoviamo per  le stesse cose.

Rinascita ha cambiato anche loro che, fino a quattro anni fa, non avrebbero scommesso una lira su di me.

Via di villa Ortisi era lontana dalla mia città, ma rappresentava l’ultima spiaggia. Due programmi comunitari falliti, un senso di vuoto sempre più pesante e così Rinascita è apparsa all’improvviso. Ho sofferto, ho pianto, ho creduto di impazzire nei primi tempi ma mi accorgevo, ora dopo ora, giorno dopo giorno, che c’era qualcosa di diverso rispetto alle altre esperienze  comunitarie..

Oggi non mi sento miracolata. Credo, soltanto, di avere scoperto uomini e donne che non volevano cambiarmi ad ogni costo ma indirizzarmi in alcune scelte.  Una terapia della vita che mi rigenerava lentamente ma a fondo. Ho scoperto l’affetto vero, dei modelli credibili, umani. Una terapia della vita che mi rigenerava lentamente ma in profondità.

I piccoli gesti, gli abbracci, le risate comuni, il bacio della buona notte; non li avevo mai vissuti, non li avevo mai voluti vivere.

Rinascita ti aiuta, forse, a non idealizzare la “comunità”. Ti trovi ad essere seguita da persone con pregi e difetti, che non hanno ricette miracolose o decaloghi rigidi da seguire: sei tra uomini. Quindi, i ragazzi, quelli “come me”, con cui condividere un passato per condividere un futuro. E’ stato quasi come vedermi allo specchio. Per la prima volta, negli sguardi, nelle parole, nei ricordi, nelle speranze di altra gente ho visto il film della mia vita,  mi sono capita.

Il rapporto con gli altri ragazzi di “Rinascita” e con gli operatori mi ha aiutato a non vivere più in silenzio. E’ stato un confronto continuo che oggi mi rende più determinata e più fortunata nel mondo dei “normali”.

In quell’angolo di Siracusa ho finalmente imparato a convivere con la mia sieropositività e lo scrivo così, senza mezzi termini, perché è una cosa mia, con la quale  devo vivere. Ma soprattutto perché ho capito che io sono qualcosa di più importante rispetto alla sieropositività. Mi sento più forte, mi sento pronta ad affrontare il mondo, a stare sulla cresta dell’onda, sul filo del rischio, pronta a scegliere il meglio per le mie esigenze. Alla fine del percorso ho imparato ad amare. Ho un ragazzo che mi vuole bene e con lui vivo un rapporto intenso; siamo una coppia, faccio parte di una coppia, con le mie difficoltà, le mie responsabilità.

Due anni di Rinascita mi resteranno dentro per sempre, ventiquattro mesi per fare tabula rasa per ripartire daccapo come una bambina tenuta per mano. Poi un nove giugno, il mio nuovo compleanno. Sono uscita dal grembo di mia madre, attraverso quel cancello verde.

Mi hanno detto: “Ciak si vive”. Voglio recitare fino in fondo la mia parte. Ho capito che non servono costumi di scena, né maschere. Ho qualcosa d’importante da offrire. E se qualche volta ho paura, sono sicura, sono innamorata della vita. Io adesso me la cavo!

Considerazioni sulla testimonianza

Come hai letto dalla testimonianza di chi ha fatto un programma in comunità per uscire dalla tossicodipendenza, l’esperienza di comunità terapeutica propone a tutti noi e anche alle istituzioni quali la Scuola e la Famiglia, stimoli per riflettere ed interrogarsi su questioni molto importanti che riguardano il senso della vita, l’educazione ai valori e come vivere i rapporti con gli altri.

Dalla lettura del brano, innanzitutto si viene a saper che il vero problema non è la tossicodipendenza ma tutto ciò che negli anni precedenti ha contribuito a scatenare il disagio del giovane, non ultimi i suoi problemi e la difficoltà di vivere.

Perché il disagio?

La curiosità, la solitudine, la pressione esercitata dal gruppo degli amici, il piacere di trasgredire e di violare norme e regolamenti, la ricerca di sensazioni sempre più forti e del rischio, ma soprattutto la difficoltà degli adolescenti nel continuare a crescere, ad impegnarsi a superare i problemi che la vita presenta ed ancora la fragilità e la insicurezza psicologica, sono i fattori che interagiscono con le carenze ed inadeguatezze della famiglia nel gestire i processi educativi. La mancanza di valori e di progettualità completa il quadro motivazionale del disagio.

Alcuni tossicodipendenti non sono stati fortunati perché hanno avuto problemi seri in momenti particolari dell’esistenza che hanno contribuito notevolmente a sviluppare il disagio, mentre altri hanno rinunciato a crescere ossia ad impegnarsi e ad assumersi le responsabilità fuggendo dai problemi. Hanno in comune il fatto di aver trascurato la pratica dei valori quali l’onestà, il credere nella famiglia, l’umiltà, etc. Inoltre, hanno una grossa responsabilità, quella di non aver chiesto aiuto agli adulti o agli amici, a loro più vicini, quando stavano male interiormente. Per questi motivi, il ragazzo che si rivolge alla comunità terapeutica e che vuole superare il disagio, è stimolato a parlare dei suoi problemi.

E’, inoltre, sollecitato a vivere con i compagni i valori della comunità terapeutica e, quindi, a riprendere la crescita personale. In questo senso, l’esperienza comunitaria può rappresentare una palestra di vita; infatti in due o tre anni al massimo il giovane deve recuperare quello che non ha appreso  o che ha elaborato in modo sbagliato in tanti anni della vita precedente. Ci si può, allora, rendersi conto della singolarità di questa esperienza.

Nella comunità i residenti più anziani hanno il prezioso compito di aiutare e sostenere moralmente i nuovi entrati proponendosi come modelli ma anche di stimolarli all’impegno costante e all’osservazione delle regole della comunità. Tante altre persone dovrebbero conoscere più da vicino le comunità per trarre stimoli ai fini dell’educazione dei figli o dei giovani. Concludiamo con un’importante considerazione ai fini educativi. Molti educatori ed esperti sul disagio sono convinti che se un ragazzo impara ad assumersi le proprie responsabilità e ad assolvere i compiti e doveri, diventerà adulto e, come tale, non si sottrarrà all’impegno, non fuggirà da se stesso e affronterà i problemi che la vita presenta. Inoltre, non sarà per lui difficile fare qualche rinuncia, quando si rende necessaria, o accettare di fare un piccolo sacrificio, se le circostanze lo richiedono. Chi conduce una vita normale e ha gioia di vivere, non sarà indotto o motivato ad assumere sostanze in quanto già sta vivendo una dimensione esistenziale diversa che lo gratifica e lo aiuta a diventare adulto.

(1) E’ il nome di una comunità terapeutica siracusana per il recupero dei tossicodipendenti.

 

Per riflettere e discutere

- Che cosa pensi dei ragazzi che assumono droghe anche se cosiddette leggere e con saltuarietà?

- C’è relazione tra una qualsiasi dipendenza e caratteristiche di personalità?

- Che cosa può fare un adolescente per accrescere l’indipendenza psicologica e l’autonomia?

- Che cosa può spingere un soggetto a sviluppare una qualsiasi forma di dipendenza?

 

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